«Diritti umani, repressione, cattive pratiche: quale modello di accoglienza?»
Non è la prima volta che i migranti ospiti dell’Hotel Plaza di Villa San Giovanni inscenano una protesta nell’arco degli ultimi mesi. Del resto, la manifestazione del dissenso rispetto alle modalità e all’organizzazione della presenza dei migranti è ormai diffusa in Italia: protesta chi arriva nel nostro paese in seguito ai terribili viaggi sui barconi, spesso successivi ai periodi di detenzione nelle infernali carceri libiche; protestano i cittadini italiani, sospesi tra le sirene razziste di organizzazioni che intendono speculare sulla paura dell’altro e sulla crisi economica ormai strutturale prodotta da decenni di neoliberismo e l’evidenza lampante che il modello di accoglienza oggi dominante – l’ammasso dei migranti in casermoni inabitabili – non funziona affatto.
Riteniamo doveroso, anzitutto, prestare ascolto alla voce e alla rabbia di chi, partito da territori dilaniati da povertà, calamità naturali, conflitti sempiterni, sperava – forse ingenuamente – di trovare un ostello di sicurezza e conforto e invece ha trovato prigioni da cui uscire risulta difficile se non impossibile. Quante volte, anche nella nostra provincia (Gambarie resta l’esempio più eclatante, ma potremmo anche citare il complesso di Archi), sono state toccate dalle luci della ribalta le mega-strutture deputate all’accoglienza dei migranti e che si rivelavano poi del tutto inadempienti rispetto ai servizi che avrebbero dovuto garantire e per cui, comunque, ricevevano e continuano a ricevere denaro pubblico!
Se i migranti del Plaza denunciano di ricevere ogni giorno cibo scadente e distribuito in modo ancor peggiore o di non disporre nemmeno del sapone con cui lavarsi e soddisfare le principali norme igienico-sanitarie, chiediamo quantomeno di verificare se questo corrisponda al vero, piuttosto che trincerarsi dietro sterili razzismi o azioni repressive inutili e indegne di un paese che considera il rispetto dei diritti umani parte del proprio patrimonio storico e culturale.
È il caso di una prassi che ci sentiamo di definire – ahinoi – ormai consolidata, quella della revoca dell’accoglienza comminata a chi decide di manifestare le ragioni del proprio dissenso. Ricordiamo, per inciso, che la Costituzione italiana – se ancora vale a qualcosa – tutela la partecipazione e la libertà di espressione, senza distinzione tra cittadini di seria A e di serie B. Non va certo in questa direzione la decisione di punire chi prova a denunciare ciò che non va revocandogli l’accoglienza e accompagnandolo – con l’inganno odioso di un trasferimento in atto in un nuovo e miglior centro – in aperta campagna, lontano dalla città, per essere quindi scaricato senza neanche una spiegazione, una delucidazione. Come non si fa nemmeno con gli animali. È questa l’idea di accoglienza che viene praticata sui territori? Questa l’integrazione che proponiamo a giovani donne e uomini che ripongono speranza nella civiltà di questo paese? Nel caso in cui chi di dovere fosse interessato a verifiche di sorta, abbiamo a disposizione gli elementi necessari a confermare quanto scritto.
Come si può dar torto a un ragazzo che dovrebbe transitare presso centri come quello di Villa San Giovanni per il tempo minimo sufficiente all’adempimento di rapide prassi burocratiche e poi si ritrova a dovervi soggiornare per un periodo di tempo indefinito senza che alcun servizio di integrazione (scuola di lingua, laboratori, sportelli legali o di assistenza alla persona, ecc.) gli venga rivolto? È l’inedia forzata, lo scorrere pesante di un tempo che non passa mai l’elemento che spesso, in queste situazioni, scatena la frustrazione dei richiedenti asilo. La garanzia di un livello ‘degno’ di trattamento e di accoglienza non è elargizione gratuita di bontà o altruismo, ma un servizio che DEVE essere offerto in cambio di denaro pubblico che viene garantito a chi si prende carico di operare in questo settore. A tal proposito, auspichiamo chiarezza e controlli efficaci.
È evidente, tuttavia, che questo sistema legato alle grandi strutture che devono ospitare centinaia di persone favorisce solo le tasche e gli interessi di chi è pronto a fare business sulla pelle dei migranti. Altrimenti, da tempo si sarebbe dovuta percorrere con maggiore decisione la strada dell’accoglienza diffusa, attenta alle necessità dei territori e capaci di produrre rigenerazione socio-economica in contesti locali che sarebbero così attraversati da un nuovo dinamismo. Piccoli numeri, sostenibilità, cura della persona, distribuzione equa delle risorse: queste sono le parole chiave di un modello di accoglienza mosso da principi lontani dall’idea di guadagnare a tutti i costi, un modello lontano da quello dei grandi centri che non accontentano nessuno. Perché perseverare? Si tratta solo di interessi economici? O conviene forse a qualcuno che monti un malcontento poi strumentalizzato da chi, fino a ieri, ha sostenuto politiche dissennate e dissanguanti che hanno martoriato la città, la regione, l’intera nazione?
Contro l’arroganza di chi cerca inutilmente di rifarsi una verginità politica irrecuperabile, respingiamo ogni razzismo e ogni atto repressivo, invitando al contempo tutti i cittadini a non lasciarsi irretire da messaggi di puro odio, desolatamente vuoti in termini di programmi, propositi, speranze per il futuro. Invece che richiedere restrizioni di diritti, noi crediamo che dalla crisi non si possa che uscire insieme, italiani e non italiani, uniti e dunque più forti per affermare democrazia e giustizia sociale.
Comitato Solidarietà Migranti (Co.S.Mi.)
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