Il comune di Campo è divenuto, nei mesi scorsi, set del film “Il Capofamiglia” di Salvatore Borrelli, basato sul suo omonimo romanzo. Sabato sera l’amministrazione comunale e il CIF (Centro Italiano Femminile) hanno organizzato la prima visione assoluta della pellicola, alla presenza dei cittadini, del regista e degli attori.
“Il Capofamiglia” affronta l’atavica vicenda della questione meridionale attraverso gli occhi di Dante, un giovane che, dopo anni di studi e sacrifici, è costretto a fare i conti con le moderne piaghe del precariato e della migrazione. La sua situazione, come quella di milioni di coetanei, è il risultato di una politica inadeguata, che per decenni ha messo in primo piano esclusivamente i propri interessi, dimenticando che la sua missione originaria è quella del totale servizio alla comunità. Dante è originario di Bramos, un piccolo paese nella Calabria più estrema e, dopo brevi supplenze, ritorna al paese natio.
L’occasione è un comizio elettorale che vede coinvolti i tre principali partiti locali: il “Movimento 4 zeppola”, il “Centro a manca” e il “Centro despota”.
Il film offre a questo punto una pungente caricatura dell’attuale panorama nazionale, riuscendo attraverso dialoghi efficaci a mettere in evidenza tutti i limiti dei suoi esponenti, ancorati a un impettito ma astratto politichese.
Dante si ribella a quest’ennesima presa in giro degli elettori e sabota l’incontro, attirando così l’attenzione dei media nazionali. Il protagonista, con coraggio e dignità, reclama a gran voce «il bisogno di un capofamiglia di tutta l’Italia, il bisogno che il Presidente della Repubblica prenda in affido, per i sette anni di presidenza, tutti gli italiani, dalle Alpi a Lampedusa. Tutti hanno bisogno di “Giustizia” e non di “Giustezza”. L’Italia è una e non può una parte avere l’alta velocità, mentre un’altra viaggia con i treni a carbonella. Come i giovani si spostano per le vacanze scolastiche dal Sud al Nord, allo stesso modo facciano quelli del Nord. “Il Capofamiglia” non “prende” e non “fa prendere” (cioè rubare) i soldi dei figli per portarli all’estero oppure sperperarli senza nessun vantaggio per i suoi familiari (concittadini)».
Le dichiarazioni di Dante provocano però qualche mal di pancia anche nella mafia locale e così il boss del paese, Don Mimì, decide di punire il giovane, per mandare un messaggio trasversale ai politici locali. Ma gli scagnozzi fraintendono le intenzioni del boss e tendono un agguato mortale al giovane, che viene freddato all’aeroporto reggino. Dante infatti avrebbe dovuto incontrare il presidente della Repubblica ma- consapevole di essere in pericolo – prima di partire scrive una lettera per il Capo di stato, che arriva alla scrivania del Quirinale imbrattata del sangue del giovane. Un eroe di patria moderno, che ha pagato con la vita la causa dei cittadini del meridione.
Intensa anche la redenzione di (manzoniana memoria) del boss locale, che getta via la cartuccia del suo primo omicidio, custodita come una reliquia. “Cosa avete fatto? Io quel ragazzo l’ho visto crescere! Era un esempio per i miei figli! Dicevo sempre loro: studiate come lui, viaggiate come lui” urla disperato agli esecutori del delitto.
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